Sculpture détour

di Ilaria Bignotti

Fame
Se ho voglia, è soltanto
Di terra e di pietre.
li mio pranzo è sempre aria,
Roccia, carbone, ferro.

Girate, mie fami. Brucate
il prato dei suoni.
Succhiate il gaio veleno
Delle campanule.

Mangiate i ciottoli infranti,
Le vecchie pietre di chiesa;
I sassi dei vecchi diluvi,
Pani sparsi nelle valli grigie.

Potrebbe sembrare anacronistico chiamare Arthur Rimbaud per addentrarsi nella ricerca scultorea di Alberto Gianfreda. Ma molto più probabilmente non lo è. Perchè il tempo, nel suo rimescolare il passato con il presente mentre già il futuro incalza resiliente, è una componente essenziale del linguaggio dello scultore brianzolo.
Al punto tale che egli stesso, al forse sovrastimato e sicuramente bistrattato concetto di “site specific”, sostituisce quello di “time specific”: un neologismo coniato qualche tempo fa, quando, cosa rara per un artista e certo a dimostrazione della sua concentrata responsabilità, ha voluto scrivere della propria ricerca. Guardando alle sue sculture, si accorgeva allora che queste non tanto erano nate da una specificità dello stare, quanto da una attitudine al divenire: condizione primaria che caratterizza il nostro tempo, nel suo protrarsi in un incessante, potenziale accadere dove, in realtà, ciò che spesso accade è il mancare a noi stessi. In questa “epoca per antonomasia dell’immateriale e del senza corpo”, scriveva qualche tempo fa Dobrila Denegri, la scultura, se ancora ha un senso, è di parlare dell’uomo. Gianfreda lo fa con forme plastiche che sono sì astratte, o meglio sarebbe definirle analitiche, ma che al contempo non perdono la loro narratività e potenza evocativa.
Così non è anacronistico se oggi, per provare a restituire con le parole il senso della scultura di Alberto Gianfreda, chiamiamo in causa le visioni di un poeta dissennato, o forse assennatissimo e per questo pronto a dichiarare “Io è Altro”: anche lo scultore, come il poeta, conosce e si abbandona alle sue stagioni all’inferno, dove ribolle il magma originante della materia che a sè ritorna rinnovandosi ogni volta, e ogni volta pronta a essere nuova forma che nasce da una struttura rigorosa e si sviluppa con eclettica potenzialità d’immagine narrante, grazie anche alle nuove tecnologie sulle quali l’artista costantemente si aggiorna.
“Si tratta solo di individuare quale forma estrarre dal costrutto cosmico di cui siamo pure noi viventi e pensanti”, scrive Gianfreda: le terre, i legni, i tessuti, i metalli, le pietre sono le cose di cui si compone l’alfabeto della sua scultura che, come quello della poesia, quando vera, è sempre a sè rispondente, non dimentica le regole perchè solo così può dimenticarle a memoria.
La mostra, che con grande sensibilità Paola Formenti Tavazzani ha scelto di curare, presenta e indaga la ricerca recente dell’artista. Si figurano crolli materici come destini nel loro farsi, orizzonti dai quali tracimano pietre e terre che han la forma e la forza delle mani che le han fatte. Le fami dello scultore sfuggono alla severa strutturazione che per esse egli stesso ha creato, srotolandosi stupefatte nel tempo in cui si delinea lo spazio, nel tempo in cui noi siamo perchè occupiamo spazio.
Ci raccontano di un percorso che dura da più di dieci anni, e che ha incontrato numerosi momenti, passaggi, limiti. A partire da questi ultimi, in prima istanza, lo scultore ha mosso il proprio operare, “lavorando sulle possibilità dei materiali e sui rapporti che li regolano, spingendoli fino al livello estremo della loro mobilità, attitudine non propria in quelli storicamente impiegati dalla scultura stessa”: ora la pietra rigida e apparentemente refrattaria alla piega, altrove il rotolo di un tessuto che si sfila e si accumula incurante dell’armonia. Lo scultore affamato bruca tra i suoi materiali, rimugina masticandone il loro divenire; un rapporto di nutrimento e di crescita, spirituale in quanto materiale, poetica perchè poietica, del fare, lo lega ad ogni sua opera.
Ne escono sculture che senza volerlo sanno parlarci di noi, delle nostre case, delle nostre cose, del nostro percorso, del nostro cambiare davanti a noi stessi, prima ancora che agli altri. Cariche di un tempo anacronistico, come anacronistici noi siamo, e combattenti mutevoli in divenire, dinanzi al nostro dover sembrare quotidiano.
La scultura di Alberto Gianfreda si riprogetta ogni volta, mettendosi essa stessa alla prova, in un farsi e disfarsi che le permette di ripensarsi, scrive lo scultore, “giusta in quell’istante, possibile in quel momento, ma probabile ovunque.”
La scultura di Alberto Gianfreda è a sè resiliente. Per questo noi lo siamo, quando le siamo davanti.




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