Alberto Gianfreda, scultore

di Giorgio Bonomi

Hugo von Hofmannsthal, ne Il libro degli Amici, diceva che: “La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie”. Concetto che si può efficacemente applicare alla scultura di Gianfreda, sulla quale potremmo anche dire, con altrettanta validità e trasformando un po’ il concetto del grande scrittore viennese, che “la complessità va cercata. Dove? Nella semplicità”.

“Semplici” appaiono, infatti, i materiali che il nostro giovane scultore adopera: sempre il ferro che, a seconda dei periodi e delle necessità dell’opera, si unisce alla terracotta, alla pietra, alla carta, oppure resta solo. Le forme che le opere assumono sono anche esse “semplici”, presentandosi come geometrie elementari, parallelepipedi, rettangoli, angoli retti, diagonali, linee di preferenza rette ma che non disdegnano la curvatura e la sinuosità.

In più c’è tutta la modernità “antimichelangiolesca”, essendo quella di Gianfreda una scultura ad “aggiungere” non a “togliere”, come per il Buonarroti che “trovava” la forma nel blocco di marmo cui toglieva “solo” le parti superflue che “nascondevano” la figura della scultura.

Qui abbiamo, invece, una scultura che è “costruzione”, che è “architettura” non solo perché, come questa, elabora “spazi”, ma proprio perché, come questa, struttura piani, interni, esterni, stabilità ed equilibri, vuoti e pieni, aperture e chiusure.

Già da queste poche affermazioni vediamo come la scultura di cui parliamo sia complessa e non, come appare a prima vista, un semplice accostamento di legni (poveri, quindi anch’essi “semplici”) “abbracciati” da una struttura in ferro. Queste sculture – oltre ad un aspetto statico particolare, cioè sembrano reggersi con un equilibrio instabile e provvisorio, mentre il ferro pare “stringere”, con un abbraccio non “mortale” bensì “vitale”, le tavole di legno che potrebbero spargersi e, quindi, disciogliere la scultura – offrono un’immagine “lirica”. Sono, infatti, una metafora della vita, di una vita sempre in equilibrio tra l’esserci e il non-esserci (la morte), tra libertà e regole, tra felicità e infelicità, tra piacere e dolore, tra ricchezza e povertà e così via. Inoltre, tutte queste “coppie” dialettiche di opposti vengono rappresentate dall’unità di natura e tecnica, di “trovato” ed “elaborato”, infatti vediamo che le tavole di legno sono dimesse, non vengono trattate o lavorate bensì sono lasciate come sono state trovate, mentre la struttura metallica che unisce è frutto di tecnologia e di raffinata forgiatura; questa, benché tenga ben strette le assi, non si offre come costrizione, come annullamento né fa del male, al contrario si pone come abbraccio affettuoso che lascia vedere, senza occultare, quei legni che stringe e sorregge.

Così lo spazio viene modulato da una “costruzione” fatta con elementi di misure diverse – come i suoni musicali – e con ritmi di vuoti e pieni ma soprattutto di luce e di ombra, generati dagli intervalli tra i singoli elementi e tra i due materiali usati.

Si prendano, per esempio, Pagine piene del 2004, qui il “disegno” (rettangoli paralleli) della piccola scultura a forma di muro stabilisce un ritmo binario, dato appunto dall’alternarsi della pietra e del ferro, di bianco e nero; oppure Variabili del 2007 – un “muro” sinusoide, realizzato con blocchetti alternati di ferro e legno – che ripete quel ritmo di luce ed ombra, accresciuto qui dall’andamento curvilineo della struttura/scultura.

La citazione di quest’ultima opera ci porta ad un altro discorso, quello dei titoli dei lavori di Gianfreda.

È noto che le titolazioni nell’arte contemporanea possono essere indicative, esplicative, spiazzanti, utili e/o inutili. Il Nostro usa titoli che indicano il contenuto – ovviamente possibile, dato che l’opera d’arte, quando è tale, è sempre polisensa e parla ad ognuno in un certo modo, pur evitando l’arbitrarietà – cioè che suggeriscono una possibile lettura dell’opera stessa o almeno il pensiero e le sensazioni dell’artista stesso. “Abbraccio” è un termine ricorrente nei suoi titoli e di questo concetto abbiamo già detto; poi troviamo spesso la parola “variabile”, perché l’opera è come una sorta di un movimento continuo, è appunto una forma che è una “variabile”, tra infinite possibilità, è, insomma, una prova di “equilibrio instabile”, di realtà che non è mai completamente definita né definitiva; inoltre i vocaboli “pressione” e “ospite” sono quasi sinonimi di “abbraccio” avendone lo stesso significato, esplicitamente dichiarato dall’artista in L’ospite, colui che accoglie ed è accolto del 2004, perché il sostantivo si riferisce sia alla terracotta “ospitata” che al ferro “ospitante”.

Orbene, vediamo ora che il ferro che “stringe” esercita una forza che trattiene altre forze, quelle centrifughe, verso le quattro possibilità spaziali (alto, basso, destra, sinistra), delle assi o degli altri materiali che si presentano con una grande carica di energia la cui compressione produce la forma data: ecco, possiamo dire che la scultura qui ha una forma generata dal movimento delle forze dei suoi materiali, divenuti materia.

Al di là dell’aspetto fenomenico, l’opera di Gianfreda ha poco a che fare con l’arte povera, anche se qualche cosa a questa deve; ci sembra invece più vicina al “costruttivismo”, vecchio e recente, cioè quello delle avanguardie storiche degli anni Venti e quello delle neoavanguardie degli anni Sessanta del secolo passato, proprio per l’aspetto “progettuale” del Nostro. Le sue forme sono articolate con un impegno programmatico di non poco conto; gli elementi vengono assemblati e strutturati in forma rigorosamente matematica, senza cedimenti al caso e all’informale. Così geometria e tettonica danno forma e sostanza all’opera che, come abbiamo accennato, non parla ovviamente un linguaggio edile bensì umano, stimolando tanto la riflessione concettuale relativa appunto ai rapporti, alla costruzione, ai materiali, ma anche all’arte e alla sua storia, quanto la sensibilità e la memoria, indotte dai suggerimenti che le materie e le forme danno all’osservatore.

Non possiamo non pensare, di fronte alle sculture di Gianfreda, alle assi di legno con cui si erigono le case, alle impalcature, alle palizzate che delimitano le proprietà, al legno che brucia e dà calore, se si vuole anche al legno della Croce di Gesù, ma pure al tavolo attorno al quale ogni giorno, in solitudine o in compagnia, ci si siede, a quel legno cioè che è materia vitale, che è duttile e che l’artista non scolpisce ma aggrega, non taglia ma unisce, non violenta ma abbraccia e l’abbraccia appunto con quel ferro opportunamente lavorato – sappiamo, infatti, che la natura e la vita non sempre possono essere prese così come si presentano, ma vanno trasformate – il quale anche suscita ricordi e pensieri, personali e sociali, sentimentali e storici.

Oggi che la scultura non può più farsi secondo la tradizione – con lo scalpello e la mazza, e forse neanche con la saldatrice – e che abbiamo tanti artisti che “installano” o “assemblano”, Gianfreda ci offre invece un lavoro di “scultura”, senza se e senza ma, che non è anacronistico pur se della scultura classica mantiene le caratteristiche: l’elaborazione di una forma plastica o, meglio, di un spazio nuovo (ex nihilo) in uno spazio dato.




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