Alberto Gianfreda: Le relazioni pericolose

di Chiara Gatti

So che Alberto Gianfreda non ama le dietrologie. A lui interessa la scultura e basta. La forma della scultura. I materiali della scultura. Lo spazio della scultura. I tempi della scultura. Nelle sue opere non ci sono storie fantasiose da raccontare né significati reconditi da andare a scovare per giustificare un determinato passaggio, un’espressione, un esito, un processo. Lo so bene. Ma guardando i suoi giganti di ferro e legno dall’anima mobile, non trovo immagine migliore per illustrarne il senso di quella della relazione amorosa fra Marcel Proust e l’ineffabile Albertine.

«La vedevo, nei vari anni della mia vita, occupare rispetto a me posizioni diverse che mi rendevano sensibile la bellezza degli spazi interposti, del lungo tempo trascorso senza ch’io la vedessi, e sulla cui diafana profondità la rosea persona che mi stava davanti si modellava con ombre misteriose e con un potente rilievo». La concezione relativistica e dinamica del tempo e dello spazio elaborata dallo scrittore francese, secondo la quale tutto cambia in base alla posizione del soggetto rispetto alle cose che ha davanti, svela infatti un punto di vista cangiante che funziona a meraviglia anche per le opere di Gianfreda, così variabili e mutevoli in confronto alla prospettiva statica della scultura in senso tradizionale. È lui stesso a sottolinearne questa caratteristica quando parla di «mobilità della scultura come sua possibilità interna, come azione delle forze in atto nell’incontro fra materiali diversi». Niente a che vedere con un gioco cinetico, intendiamoci. Non c’è nulla di artificioso nei lavori di Gianfreda. Nessun meccanismo nascosto, leva d’accensione o soffio di vento che possa generare un movimento qualunque. Il moto sta tutto dentro. Come nel cuore di Albertine, imprevedibile ed enigmatica, bella come una divinità classica fuori, ma tormentata da un concentrato di tensioni nel petto, da un groppo di emozioni inesplose, attorno alle quali Proust rantola in cerca di un bandolo, di una chiave di lettura, della posizione ideale in cui porsi per stabilire un contatto, innescare finalmente una relazione.

E risiede proprio in questo dialogo serrato fra le due parti, fra opera e spettatore, la contemporaneità della scultura di Gianfreda, che si direbbe erede attuale di una catena di ricerca inaugurata da Rodin, con le sue superfici tormentate dalle pressioni di forze interiori, e raccolta poi da autori come Morris o Serra con le loro immagini «ossessionate – a detta di Rosalind Krauss – dall’idea di passaggio» capaci di traghettare la scultura dalla sua dimensione di medium statico, appunto, verso una nuova dimensione spaziale e soprattutto temporale. La stessa che Gianfreda ha definito non a caso «time-specific», pensando sì al luogo dove l’opera si manifesta, ma prevalentemente al tempo, alla durata della sua apparizione. Ed eccola ancora qui la “rosea persona” di Albertine aumentare il proprio fascino in modo proporzionale al protrarsi delle sue assenze. La scultura di Gianfreda allo stesso modo compare in un istante preciso, si srotola nello spazio, si modella (duttile) sulle superfici, fra gli elementi della natura o dell’architettura che l’accolgono come un’altra pelle e che si lasciano modificare dal concentrato di potenza che essa irradia; un rapporto fugace, inafferrabile in grado di determinare una profonda reciprocità fra l’opera e il suo organismo ospite e, altresì, con il pubblico che si ritrova coinvolto in questo triangolo amoroso, impaziente a sua volta di toccare, attraversare, aderire al corpo della scultura per diventarne – per un momento soltanto – parte integrante.

Avevo promesso niente dietrologie. Ma il concetto della forma aperta e volubile sperimentata da Gianfreda stuzzica riflessioni in un certo senso più narrative e un’indagine sul ruolo di tutti gli attanti chiamati a rapportarsi con il suo lavoro. A partire dall’incontro con i materiali originari della scultura: dal legno, al metallo, alla terra, di fronte ai quali lo spettatore sembra assumere lo sguardo avido di Proust al cospetto delle “ombre misteriose” e del “potente rilievo” di Albertine. Ha la tentazione di allungare le mani sulle carni rosee dell’argilla che, nella serie delle terrecotte compresse, scivolano sensuali fuori delle griglie del loro abito di ferro. C’è qualcosa di passionale in tutto questo. Una passione tradita dai meccanismi stessi di realizzazione del pezzo, dove Gianfreda azzarda un’unica cottura spingendo i materiali verso un momento di fusione comune che, a mille gradi, rischia di sbriciolare la terra e spaccare il metallo, entrambi liquidi, magmatici e, per un attimo, fusi insieme come due corpi in uno, prima di tornare elementi distinti ma oramai indispensabili l’uno all’altra. Difficile immaginarsi la scena senza cedere alla seduzione di leggervi la metafora di un abbraccio umano. C’è pure qualcosa di erotico, viene da dire. «Molto» dice lui (e sorride). Ma, anche in questo caso, so che le metafore gli interessano poco.

«È un discorso sulla scultura» tiene infatti subito a precisare. Un discorso sul linguaggio della scultura. Lo capisci dal piacere che prova nel portare i materiali a un punto di non ritorno. Si capisce dall’attesa che permea i suoi processi di creazione. Dall’intervallo di tempo – per tornare alla variabile fondamentale nell’opera di Gianfreda – che intercorre fra il suo intervento diretto sulla materia e l’autonomia che essa manifesta nel processo di formazione successivo. Vale nel caso delle terrecotte spremute dal ferro come fossero bigné; ma anche nel caso delle stole di legno che necessitano di un’architettura per muoversi e distribuirsi armonicamente nello spazio. Gianfreda dà loro una ragione d’essere, un indirizzo, una griglia dentro cui muoversi, ma poi le lascia libere di esprimersi.

In questo senso si può dire che, nella sua ricerca, convivano due anime distinte: una progettuale, che disegna le forme, i nessi, i leganti, i pesi e le misure; e un’anima informale, che invece concede alle tensioni interne di agire indipendentemente da ogni programma precostituito. La variabile del caso, esattamente come quella del tempo, è proporzionale al fascino del risultato finale. E la casualità è dovuta proprio a quel dinamismo interno, all’anima mobile e imprevedibile della sua personale Albertine che si divincola dentro l’elemento ordinatore del ferro. La terra lì trabocca, così come le aste di abete fluttuano, scivolano le une sulle altre, fra gli anelli di metallo delle sue strutture “poliforme” creando, a ogni passaggio, nuove geometrie, nuove architetture dentro l’architettura stessa che le accoglie.

Già, l’architettura. In questo gioco di relazioni vicendevoli (e anche un po’ pericolose a giudicare dalla concentrazione dell’energia trattenuta), l’elemento architettonico diviene, a sua volta, attore e regista delle famose prospettive cangianti. È la superficie, l’ospite, il giaciglio su cui la scultura s’adagia. Ma è anche il guscio, l’angolo, lo spigolo, la nicchia che, allo stesso tempo, la modella recuperando – aggiornandola – la funzione storica della scultura come decorazione, tassello a incastro di uno spazio preordinato. È qui che la materia inerte dei poveristi (Zorio in testa) viaggia verso inediti territori d’indagine, che riconsiderano, grazie a Gianfreda, il dialogo non solo fra materiali diversi, ma fra i materiali e lo spazio che li circonda e perfino il tempo determinato in cui questa “ospitalità” si attua. Proust, davanti a tale triangolazione sentimentale, sarebbe diventato matto. In verità, fu sufficiente la mutevolezza di Albertine a farlo sbroccare…

Gianfreda, no. Perché, ancora una volta, non ne fa una questione concettuale o semantica, ma totalmente formale. «Il pezzo è il pezzo; sta nello spazio e, se funziona, bene». Beata semplicità. Basta con le dietrologie, insomma. Quella di Gianfreda, per citare Testori, è pura “scultura-scultura”.




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